giovedì 22 dicembre 2011

Non è possibile guarire dalla «condizione umana»



di Piergiorgio Bianchi


Dopo Marx il pensiero che a lui si è richiamato ha subito una curvatura ideologica. L’umanismo burocratico e stalinista, il Diamat, eretto a ideologia degli apparati di Stato, è riuscito a occultare, a coprire (e ad aggirare) la scoperta del Capitale. Qualcosa riconducibile alla pulsione di morte ha imposto la riproduzione del lavoro alienato all’interno di uno Stato poliziesco in cui il lavoratore è stato assunto ad emblema della virtù sociale. L’ideologia ha continuato nel socialismo ad assolvere la sua funzione di mistificazione dei rapporti sociali. (Altro che tramonto delle ideologie ed estinzione dello Stato!) Il migliore effetto delle ideologie è proprio quello di non farsi riconoscere come tali.
Ma quali sono oggi le ideologie cui gli apparati di tutti gli Stati occidentali si sono convertiti? Il cognitivismo assume la stessa funzione riservata al materialismo dialettico nello Stato sovietico, in quanto poggia sulla stessa rimozione dell’oggetto freudiano. Sicché c’è oggi più Unione Sovietica di quanta ve ne fosse ai tempi di Breznev. Le neuroscienze si propongono come delle tecniche di apprendimento e condizionamento che intendono sconfessare la divisione soggettiva. Si rivolgono all’individuo, cioè all’indiviso, ad un soggetto pieno. I cognitivisti sono autentici addestratori di uomini, poiché considerano solo il comportamento osservabile ed i risultati valutabili della terapia. Al contrario, per la psicoanalisi l’uomo ha un corpo, ma non si riduce al corpo. C’è una corporeità animale dell’uomo e c’è una dimensione la quale si sottrae alla natura, che non dipende dal funzionamento biologico.
La psicoanalisi pone una questione intorno alla nozione di guarigione. Parlare di cura ha senso soltanto se la prospettiva della guarigione si libera dall’illusione dell’”uomo nuovo”. Non si può guarire dalla «condizione umana», la quale si inscrive nel disagio stesso della civiltà. Il lavoro d’analisi è l’antitesi di un’idea statica di guarigione. Non intende ricondurre il soggetto ad un aggiustamento ortopedico o ad una condizione che preceda la manifestazione dei sintomi nevrotici, ma solo invitare ciascuno a prendersi cura di sé. Non c’è guarigione senza decisione soggettiva. E questo significa pensare di fare qualcosa del proprio impossibile per trasformarlo in una nuova possibilità.
La psicoanalisi tiene aperta una domanda cui la scienza cognitiva si sottrae, la domanda etica. Spinge il soggetto ad interrogarsi sul senso del proprio malessere, ne fa un sintomo, ma lo conduce a quel nucleo di non-senso dell’esistenza. In questo incontra la religione, che invoca il Nome-del-Padre. Non certo perché sia salva dal vecchio dogmatismo, ma in quanto si interroga sul senso, in quanto non le basta il sapere, la psicoanalisi avvicina la religione. La fede è il tentativo di forzare la solitudine del soggetto. Bisogna guardare con grande rispetto ad ogni sforzo troppo umano di chiarire il mondo. Per questo non è superfluo rileggere la lettera di Marx a Ruge (marzo 1843), in cui Marx afferma che la coscienza si presenta in una forma politica e religiosa, che deve essere chiarita. Solo così si capirà che, da molto tempo, il mondo ha il «sogno di una cosa». Ma il chiarimento di quel sogno comporta per Marx una certa trasformazione del mondo.
Alcuni studenti mi chiedono di rendere esplicito, come insegnante di Filosofia, quello che penso del conflitto religione-scienza. Mi sembra che lo scenario del confronto non lasci scampo. In quanto tecnica, la scienza punta, oggi, al controllo dei corpi, mentre imputa alla religione di essere una forma di disciplinamento delle anime, ma in realtà di fare ostacolo al proprio progetto totalitario. Di fatto si tratta di due strategie differenti. Oggi tuttavia le forme del totalitarismo sono quelle che provengono da una scienza ridotta a tecnica. E’ il vivente che fa problema alla scienza, la quale ha smarrito ogni domanda etica, ha espulso il soggetto dalle sue procedure, rivelandosi, sotto questo profilo, come una pratica al servizio della morte. E’ sbagliato rimuovere il problema, presentando unicamente le magnifiche sorti e progressive della scienza, e ignorando le strategie di controllo del vivente. In questo senso è utile riprendere il filone del pensiero novecentesco da Husserl a Heidegger, a Lacan, dalla Scuola di Francoforte a Foucault, che, a mio avviso, continua ad essere un punto di confronto imprescindibile del nostro dibattito.

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