giovedì 22 dicembre 2011

Le trasformazioni del mondo del lavoro e il discorso del Capitalista (parte prima)



di Guido Ferro Canale


Da quando, nel 1972, Jacques Lacan ha introdotto il discorso del Capitalista come variante contemporanea di quello del Padrone, la psicoanalisi applicata si sforza di usarlo come chiave di lettura delle modifiche che interessano la società. Il lavoro, fenomeno sociale tra i più importanti e, insieme, occasione per l'entrata in analisi di tanti soggetti, a mio avviso si presta in modo particolare a questa lettura. Voglio, qui, tentarne un piccolo saggio, presupponendo nel lettore, per brevità di esposizione, la conoscenza delle formule in cui si articola la teoria dei discorsi e la capacità di leggerle.

L'ipotesi di lavoro è, dunque, leggere le trasformazioni del lavoro in chiave di sostituzione del maître con il Capitalista: in termini di struttura, S1 e $, s'invertono, quindi S1 finisce sotto barra ed $ entra in tensione con S2, che non si trova più correlato direttamente a S1.
Tutto questo trova qualche riscontro sul piano dei fenomeni? Riesce a rendere ragione del dato empirico? Credo di poter azzardare una risposta affermativa.
Iniziamo con il dato più eclatante, il passaggio di S1 sotto barra. E' la "caduta del Nome-del-Padre", fenomeno complesso ma lampante nella società contemporanea. Ora, nel nostro caso, il Nome-del-Padre conosce una manifestazione specifica, l'identificazione al lavoro. Il linguaggio comune la esprime perfettamente, sol che si badi all'uso di dire "Io sono un impiegato, un dottore, un avvocato...", anziché "Io faccio l'impiegato, etc."; e, a ciascuna delle professioni testé elencate, la mentalità corrente associa uno stereotipo e un ruolo sociale, come dire che correla questi S1 con S2. Pertanto, l'inversione tra S1 e $, sul piano dei fenomeni, dovrebbe tradursi in: lavoro strutturalmente incapace di produrre identificazione (S1 sotto barra) e strutturale incertezza del lavoratore sul proprio posto nella società (S1 non è più vettore di S2).
A qualcuno viene in mente una descrizione migliore del precariato?
Invero, è strutturalmente impossibile identificarsi con mansioni svolte magari per sei mesi, poi sostituite da altre completamente diverse, e così via. Viene in primo piano un altro dato, il bisogno di lavorare; e basta un attimo di riflessione per ricondurlo alla divisione soggettiva (dunque a $ nel luogo dell'agente), perché l'immagine ideale – miraggio di libertà e di autosufficienza assolute – cozza contro il dato di realtà che, da una parte, nessuno di noi basta completamente a sé stesso, quindi, per procurarci quello che da soli non possiamo produrre, dobbiamo scambiare beni o servizi; dall'altro, però, io lavoro solo se è possibile lo scambio, cioè se un altro mi assume o se un altro mostra interesse ai prodotti o servizi che ho da offrire. Il lavoro, anche quello detto "autonomo", comporta sempre un sacrificio di libertà e di autosufficienza.
Il discorso del Padrone affronta il problema proponendo un grande compromesso. Dinanzi all'antitesi secca “O la libertà o la vita!”, propone al soggetto un modo per ritagliarsi un poco di entrambe. "E' vero che io ti succhio una bella dose di plusvalore ed è anche vero che tu sei soggetto diviso; però ti offro un modo per dispiegare le tue capacità, una posizione, una certa dose di rispettabilità sociale e anche un po' di mezzi per realizzare almeno alcune delle tue aspirazioni extralavorative". Una scelta di realtà, appunto, quindi nel segno del simbolico.
Che dice, invece, il Capitalista? "Tu sei un fattore produttivo e mi devi rendere; non mi interessa darti un nome o un ruolo, fosse pure quello di fattore produttivo; tu sei e resti un soggetto diviso, qui conta solo quello che fai".
Discorso complesso, pur nella sua brutale concisione.

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