venerdì 11 novembre 2011

La scelta di un tempo composto


 di Piergiorgio Bianchi

Non sono passati molti anni dall’implosione del «socialismo reale» e già assistiamo ad un invecchiamento delle critiche a Marx. Non solo quelle critiche non hanno scalfito l’oggetto del Capitale, ma hanno avuto il merito di operare come un incessante lavoro del negativo, facendo riemergere quell’oggetto in tutta la sua radicalità. Oggi leggere Marx si presenta finalmente come la questione di leggere il nostro tempo con Marx, liberi dalle nebbie ideologiche del secolo scorso. Non si tratta, pertanto, di far ritorno a Marx, ma piuttosto del ritorno di Marx nel nostro tempo, il quale, in questo modo, cessa di essere un eterno presente e riprende ad essere un presente storico.
Oggi lo spettro del capitalismo e quello del comunismo tornano a contrapporsi sulla scena di un mondo che, di nuovo, ci si presenta capovolto. In Spettri di Marx, il quale ha segnato in questo senso un punto di svolta, Derrida mostra come nelle ingiunzioni che intendono scongiurare l’apparire dello «spettro di Marx», vi sia la ragione del suo ritorno. Gli apparati ideologici di Stato, da almeno trent’anni, ne decretano la morte. Hanno addirittura pensato di seppellire la sua parola nel secolo del «Male assoluto». Ma sono ora attoniti di fronte al ritorno, in grande stile, dell’autore del Capitale, a dimostrare che il fantasma della morte di Marx non è stato attraversato. Oggi il ritorno di Marx si preannuncia come il riemergere di una causa su cui troppo a lungo si è steso il silenzio, tanto che pensavamo muta la sua parola di verità.
Una teoria risponde alla domanda come funziona qualcosa? La domanda ci indica lo scarto tra il movimento della teoria e quello che è un banale approccio empirico, il quale funziona senza interrogarsi. Una domanda simile può esistere tuttavia solo in un certo modo, ossia come “prassi teorica”: già «applicata» in quanto è teoria di qualcosa. Non si tratta di costruire, pertanto, un sapere ex novo per «applicarlo» in un secondo tempo, chiudendone l’elaborazione in una cornice auto-referenziale che marchi la propria separazione dalla prassi, ma di imprimere un movimento al sapere stesso. Infatti è il sapere che si muove, non la coscienza. Si “prende coscienza” solo di ciò che si è già spostato, altrimenti si fa resistenza.
Conosciamo due modalità di movimento, per i nomi che vi ha dato la fisica moderna: rotazione e traslazione. Allorché ruota su di sé, il pensiero «fa il vuoto» di ciò che non-è teoria, in quanto lo espelle da sé. Al tempo stesso, traslando, spostandosi, circoscrive un campo, rendendo visibile il proprio oggetto, emendandolo di quello che lo rendeva irriconoscibile. Ogni campo teorico è prodotto da un taglio sulla superficie del sapere. Il taglio operato da Marx nei confronti dell’economia politica rende visibile il plusvalore, che è l’oggetto del Capitale: colpito da rimozione, invisibile dal luogo di osservazione dell’economia politica. Ogni movimento del pensiero risulta, pertanto, composto di due movimenti, la cui efficacia non sta nel presentarsi in tempi separati, ma nel trovarsi fin da subito in un solo tempo composto, che è rotazione e traslazione.
Il movimento di cui parliamo è carico di teoria, in quanto è precisamente la prassi di un tempo composto. La struttura compone le sue linee vettoriali, organizza i suoi punti di incrocio e infine libera forze, che sono espressioni di una certa forma. E’ il senso di quanto afferma Lenin in un passaggio iniziale del Che fare?: «Senza teoria rivoluzionaria non vi può essere movimento rivoluzionario». Per questo la domanda di teoria non può mai prescindere da un certo movimento. Muovere la teoria significa fare emergere un oggetto del sapere, che, per il fatto di rendersi visibile, mostra di essere un nuovo oggetto, all’incrocio di relazioni insospettate. Nuovo è ciò che emerge dal silenzio della struttura. Spinoza ci insegna che il pensiero circoscrive il proprio oggetto, emendandolo di quello che lo rendeva irriconoscibile. Spostare il sapere è dunque un invito a introdurre effetti di verità nel luogo dell’immaginario. Cos’è una rivoluzione se non un grandioso spostamento dell’asse del pensiero entro un nuovo campo del sapere, che questo, con il proprio movimento, viene ad aprire e ad articolare?
Non si punta certo al sapere assoluto, bensì a quello contingente e parziale. Si impara ad interrogarlo là dove fa male, là dove si fa sintomo. Alla domanda di teoria che le giovani generazioni avanzano
viene risposto tuttavia con il buon senso di una pratica empirica che elude qualsiasi domanda su come qualcosa funzioni. Soltanto un empirismo insensato e a-teorico, rotto ai compromessi, sembra oggi accolto. Esso confonde il movimento con l’agitarsi, attribuendo alla teoria l’immobilità che è solo imputabile alla propria impotenza. Nel momento in cui coltiva l’illusione del movimento, l’empirismo odierno si traduce in una prassi della fissità, che certifica (e riproduce) l’identico: più immobile di qualsiasi ipotesi tolemaica. La forma attuale dell’empirismo riguarda la pretesa di procedere per tecniche senza teoria. Ogni istanza teorica è accolta con discredito, alla stregua di un inutile esercizio dogmatico, mentre i valori dell’universale sono riproposti al solo scopo di rendere più sopportabile l’inconsistenza dell’Altro.
E’ l’imporsi di una domanda di teoria, l’interrogazione su come qualcosa funzioni, che ci spinge a riprendere ora le acute pagine del Capitale, a capirne l’oggetto, ma anche a spostarlo, accostandolo alla scoperta freudiana dell’inconscio. Lacan fa di Freud qualcosa di differente da uno scrittore della decadenza mitteleuropea, rompe con la tradizione interpretativa che manda l’autore di Inibizione, sintomo e angoscia a scuola da Schopenhauer unicamente per non leggere il testo freudiano, per prendere le distanze dall’oggetto freudiano. E’ la lettura lacaniana che ci dice che ci troviamo ancora dentro il tempo di Freud. Soltanto adesso la psicoanalisi può dispiegare le proprie potenzialità cliniche.
Dopo Lacan la nozione di sintomo cessa di riguardare la patologia, per divenire un dispositivo teorico e clinico in grado di collocare il sapere marxiano e quello freudiano in un unico campo epistemico. Il tempo di Marx è, pertanto, anche il tempo di Freud. Porre la pulsione sul versante dei processi descritti dal Capitale significa rivolgersi al cuore stesso della produzione, rendere visibile il buco nella struttura che rimane per l’etica della psicoanalisi sotto giudizio di esistenza. Si tratta, pertanto, di assumere questo oggetto, colpito dalla rimozione, come il luogo di una critica.
Se consideriamo attentamente la nozione di entropia, che Lacan introduce nel Seminario XVII. Il rovescio della psicoanalisi (1969-1970), ci accorgiamo che soltanto a cominciare da lui il godimento prende un posto nel discorso psicoanalitico. L’entropia che annuncia è la perdita che incessantemente viene messa in gioco nell’economia delle pulsioni. Lacan chiama in causa il plusvalore marxiano, che in tal modo diventa il paradigma del godimento, in quanto segna lo scarto che intercorre tra il lavoro e il valore.
La domanda aperta dalla teoria di Marx è un appello forte dopo che il richiamo all’universale ideologico si è dissolto. Oggi il lavoro del filosofo può soltanto porsi in relazione ad un fuori, a ciò che non è filosofia, ma positività del molteplice. La passione del concetto è solo un versante di questo lavoro. All’altro capo del filo c’è la contingenza politica. Più contingenza avvolge il filo, più mondo sarà in grado di dispiegare. Una teoria tiene solo in quanto è capace di relazionarsi a un’etica e di elaborare una politica, non per confondersi col mondo plurale dei soggetti ma per avvolgerlo. Solo nelle reti di un pensiero strutturato potrà allora emergere, come un pesce dorato, l’oggetto che causa il funzionamento della realtà sociale: l’oggetto del Capitale. Gli effetti di questa nuova alètheia sono ancora da scoprire.